Cosa rimane di un amore quando finisce?

Castelbuono, agosto 2015.

Tengo solo il buono
come il tuo profumo
che mi ha sballato più
di ogni cosa abbia
bevuto o fumato.

Qualcuno ha scritto questi versi sul muro di una vecchia casa abbandonata, a Castelbuono, in Via delle Concerie, la strada dove sono nato.

Ho scavato tra i ricordi dolorosi per dare una risposta alla domanda: «cosa rimane di un amore quando finisce?». Tra le sensazioni rimaste nella miniera dei sentimenti fossilizzati, ho rivissuto con la moviola della memoria quella voglia di cancellare tutto: parole, profumi, sapore di baci, carezze senza futuro. L’unica cosa che ho visto tenacemente aggrappata nella memoria e nelle cellule più sensibili, era il rimpianto di un tempo sciupato, vissuto invano, un tempo che non ha dato fiori né frutti ma che ha maturato solo rancori.

In effetti, quando finisce un amore in noi rimane l’amarezza di non avere realizzato i nostri desideri, quei sogni rimasti impigliati nella rete dal sentimento irrealizzato dove sul fondo rimane a marcire la malinconia.

Nella nostra anima graffiata rimane il dolore di un’opera incompiuta, lo stesso dolore che prova uno scultore quando si rende conto di non potere più alzare lo scalpello per continuare a dirozzare il marmo che imprigiona la sua opera d’arte, la sua donna, la sua stessa carne. Nella coscienza del pittore rimane la nostalgia degli occhi della donna amata che non potrà più dipingere se non a memoria. Nel cuore del poeta rimane la tempesta, il dolore di non sapere più parlare di futuro.

Ma chi ha scritto questi versi sulla grezza facciata di un muro di periferia, ha una risorsa in più rispetto al mio ricordo di tormento: si reputa capace di saper fare una cernita tra le cose da ricordare e i momenti da scordare. Decide di tenersi “solo il buono” di quella storia e di quella persona amata. Riconosce “che il suo profumo” lo ha davvero sballato, “più di ogni cosa abbia / bevuto o fumato”. Forse si affida al filtro del tempo che alla fine nasconde le scorie tra le dimenticanze per fare affiorare soltanto le pepite che abbiamo avuto in dono dalla vita.

Anche oggi ho incontrato la poesia tra le strade più dimenticate dell’esistenza.

 

poesia

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È QUESTA LA POESIA?

       

                                                                                           

                                      La poesia

                                      è inno alla gioia

                                                         anche quando parla di dolore

 

                                      è inno all’amore

                                                        anche quando parla di miserie

 

                                      è inno alla vita

                                                     anche quando parla di sterminio

 

                                      Io non conosco i suoi confini

                                                             i suoi orizzonti

                                                             i suoi abissi

                                              il mistero che ne consacra l’esistenza

 

                                        So che i ciechi

                                                                 ne avvertono il profumo

                                        e i poeti

                                        cercano l’essenza

                                                         tra le sue radici più profonde.

                                     

                                         

                                                                     

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Considerazioni attorno al libro

     Un libro, qualsiasi argomento tratti, non è soltanto un oggetto importantissimo per ogni suo autore, in qualsiasi latitudine egli risieda, a qualsiasi condizione socio-culturale appartenga. Un libro è l’estensione vitale del suo stesso corpo. Ogni pagina, la foglia d’un albero che l’autore cresce con infinito amore per cogliere dei “frutti” da condividere col mondo.

Un libro, prima di esserlo, viene sognato, idealizzato, progettato e alla fine viene concepito con piacevole palpitazione, quasi come se si concepisse un figlio. Chi ha provato la gioia di avere fra le mani la sua pubblicazione ancora fresca d’inchiostro, queste emozioni le conosce benissimo! E la cosa che maggiormente stupisce il suo stesso autore consiste nel fatto che non ci si abitua mai a tale grande avvenimento!

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.LE LEGGENDE VIVONO NELLE CASE DEI BAMBINI

        Non sempre le leggende scaturiscono da fatti reali, storici, come non sempre le leggende sono il frutto della fantasia di un autore. Sono l’essenza stessa della vita. Difatti si nutrono di vita e viaggiano dentro i cuori, tra i sospiri e la semplicità. Si scaldano tra i bivacchi dei mandriani, tra i falò dei senza tetto, dove la parola riscalda le notti più fredde e le paure più antiche. Vivono nelle case dove i bambini si addormentano intrecciando i desideri con i colori delle loro trame. Sopravvivono tra le macerie delle guerre e le tendopoli dei terremotati. Si fanno portavoce del dolore, bandiera dello spirito e della voglia di riscatto.

            Le leggende viaggiano sui mari, sulla terra, a dorso di cammello, tra le speranze dei fuggiaschi. Camminano sulla sabbia dei deserti dove le carovane avanzano con la lentezza del tempo dentro il cuore. Ogni passo è una danza che avvicina alla meta. Passo dopo passo si trasformano, come si trasformano le dune, le nuvole, gli uomini e le cose.

             Quando arrivano tra le pareti di casa, sono già mito, sono già storia, sangue e linfa  della cultura di un popolo.

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DOVE VANNO A MORIRE GLI AQUILONI?

    Non è facile sognare un aquilone strappato dal vento della vita. Provaci! Saprai che l’orizzonte potrebbe somigliare a un cortile o potrebbe sembrare l’infinito. Ma dove vanno a morire gli aquiloni? Io so che i sognatori svaniscono all’alba, come le stelle. Trascorrono la notte a raccontarsi del tempo, della luce e dell’amore. Ma non è facile seguire le comete. Non è facile addormentarsi dentro un sogno.

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UNA NOTTE AL PRONTO SOCCORSO (ti fa sentire in pace con la vita)

A volte, quando parliamo della vita e della salute, ne parliamo per avere vissuto magari un’esperienza dolorosa, ce ne ricordiamo, poiché il “dolore” non si lascia dimenticare, e commentiamo, magari per consolare un amico o un parente. Ma basta passare una notte presso un pronto Soccorso della nostra città, dalle 4,45 fino alle ore 13,30, “obbligato” a vedere sfilare, dinanzi ai tuoi occhi e alla tua coscienza, una processione di dolenti come te, bisognosi tutti di urgentissime cure, e tra gente che geme, tu che pensi di morire, lettighe che mancano, sedie occupate, cretini che fumano, sala d’aspetto stracolme, anche quelle dove sostano i pazienti che hanno ricevuto le prime cure, “pazienti” magari in attesa che si esaurisca la flebo o che arrivi il responso di un esame, allora quando esci fuori da quel “girone”, non per merito tuo, ma perché, inaspettatamente, hai superato indenne la tua prova di “coraggio” e di “resistenza”, forse perché magari sei stato miracolato a tua insaputa, per prima cosa baci la terra (scegliendo un angolino igienicamente adatto) e poi, grato, sollevi lo sguardo e il pensiero verso l’alto, ringrazi a chi di dovere e a voce alta, esclami: “minchia” quant’è bella ‘a saluti!

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MISTERO DELLA LUCE

       Una nostra vecchia foto non è soltanto un semplice documento visivo. Per prima cosa richiama alla mente fatti e persone che hanno condiviso parte della nostra vicenda umana. Guardandola ci rendiamo conto del tempo trascorso e di quanto siamo impotenti rispetto al suo inarrestabile fluire. Spesso, quell’attimo rimasto impresso nella nostra memoria si tramuta in dolorosa nostalgia. Nostalgia di quel preciso momento in cui abbiamo fermato il tempo imprigionandolo sulla pellicola, sulla carta fotografica, tra i nostri ricordi. In determinati casi avvertiamo il sacro pungolo della malinconia per quel qualcosa che ci sembrava di avere in pugno, (la vita), e di averla vista scivolare dai nostri calendari senza averla vissuta fino in fondo e con maggiore consapevolezza.

Ci chiediamo, spesso, se il senso di quanto accada o sia accaduto, documentato da un’immagine, abbia una sua logica vitale e funzionale o sia soltanto la rimanenza di un sogno in cui credevamo di essere svegli, padroni del nostro destino, in grado di stabilirne le sue sfuriate o le sue improvvisazioni.

Guardando una nostra vecchia foto capita di chiedersi se quell’immagine abbia mai avuto un suo momento di vita concreta o sia soltanto l’impronta di un attimo fuggente, una scintilla di luce o un suo riflesso che, volutamente, abbia impressionato la pellicola e la nostra fantasia di reduci del tempo in transumanza, in cammino verso gli altipiani dell’esistenza dove la stessa vita torna a incontrarsi col silenzio e con la madre terra.

Guardando una nostra vecchia foto parzialmente sbiadita, può capitare di provare il sacro fuoco del rimpianto, lo stesso sentimento che ci proietta in quel tempo ormai consumato in cui credevamo di essere assoluti protagonisti della nostra storia, inarrestabili e onnipotenti uomini finiti per sbaglio sulla terra. In questi casi, veniamo assaliti dalla tristezza e dalla malinconia. Sono questi gl’ingredienti principali di un cocktail di emozioni, sentimenti e sensazioni in fermento nel nostro animo di sopravvissuti consapevoli che il tempo è il nostro Caronte, il traghettatore che, drammaticamente, ci avvicina sempre più alla foce dell’esistenza per consegnarci all’eternità.

In una foto è racchiusa l’essenza e il mistero della luce. Tra un fotone e l’altro scivola la vita e l’universo.

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La banda musicale di Castelbuono, mio paese natio, nei primi anni sessanta. C’ero anch’io!
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LA DONNA É…

La donna è la madre della vita, colei che dà l’imprimatur all’esistenza col suo sangue, col suo latte e con le sue lacrime. É l’essere più straordinario che mai abbia attraversato questa terra. In lei si celebra la meraviglia, la bellezza, la fecondità.

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NAUFRAGIO

Stamani, attratto dal contrasto di colori tra il mare, il cielo e questo pedalò finito tra le alghe, pensavo che in fondo anche noi uomini siamo dei pedalò che a fine stagione, quando viene ufficializzato anche il nostro fine servizio, spesso finiamo in riva al nostro ex mondo incapaci di ri-prendere il largo e continuare a navigare nel mare magnum dell’esistenza. Chi passa magari fotografa le nostre rughe e la nostra larvata inconsistenza, così, tanto per avere in repertorio l’immagine particolare di un vecchio pedalò al capolinea della sua vita. Non saremo anche noi delle fragili imbarcazioni da diporto?

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Spiaggia di Capaci 16 Nov. 2016

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C’ERA ‘NA VOTA UN RE…

C’ERA ‘NA VOTA UN RE… Befè viscottu e minè, c’aveva ‘na figghia, Befigghia viscottu e minigghia, e la figghia, Befigghia viscottu e minigghia, aveva n’aceddu, Befeddu e mineddu. Un jorno l’acceddu, Befeddu e mineddu, scappò di la gaggia e si nni vulò e la figghia di lu re si dispirò. Allura lu re, Befè viscottu e minè, pi cunsulari la figghia, Befigghia viscottu e minigghia, fici chiamari tutta la genti, Befedda e minedda, e ci dissi: A cu’ a me’ figghia, Befigghia viscottu e minigghia, ci porta l’acceddu, Befeddu e mineddu, ju ci la fazzu maritari.

Doppu tri jorna si fici avanti un cristianu, vavuso tignusu e piducchiusu, e vosi parrari cu lu re, Befè viscotto e minè, a propositu di l’aceddu, Befeddu e mineddu, scappatu a so’ figghia, Befigghia viscottu e minigghia. “Ecco signor re, Befè viscottu e minè, chistu è l’acceddu, Befeddu e mineddu, ca vostra figghia, Befigghia viscottu e minigghia, si fici scappari di sutta lu nasu. Ora caru re, Befè viscottu e minè, mi l’aviti a dari pi mugghieri.”

Lu re, Befè viscottu e minè, mannò a chiamari a so’ figghia, Befigghia viscottu e minigghia, pi diricci ca lu so’ aceddu, Befeddu e mineddu, finalmente s’aveva attruvatu. La figghia, Befigghia viscottu e minigghia, quanno vitti a ddu cristianu, vavuso tignusu e piducchiusu, si vutò versu la genti ca nto mentri s’aveva arricugghiuta e dissi: “Ju sugnu Befigghia viscottu e minigghia, figghia dû re, Befè viscotto e minè, e mancu morta mi marito a stu vecchiu, vavuso tignusu e piducchiusu, sulu pirchì attruvò lu me’ aceddu, Befeddu e mineddu.

Allura ddu cristianu, vavuso tignusu e piducchiusu, taliò lu re, Befè viscottu e minè, taliò la figghia, Befigghia viscottu e minigghia, vasò l’aceddu, Befeddu e mineddu, grapiù li jita e l’aceddu vulò. Cicìu-cicìu ca lu cuntu finìu.

(Filastrocca popolare tramandata oralmente, trascritta in siciliano da Michele Sarrica) 

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IL FARWEB NON É PIU UN SOGNO

       Ultimamente è insorta in me una problematica quasi esistenziale che, fortunatamente, non mi procura insonnia o fastidiosi pensieri da boia. Dunque: il problema è questo. Non sono ancora riuscito a comprenderne il meccanismo psicologico-risorgimentale di tutta quella categoria di critici, moralisti e ben pensanti occasionali che affollano le bacheche dei network. La perplessità nasce dal constatare che molti frequentatori di queste pagine virtuali svolgono la stessa funzione dei vulcani spenti. Ci sono, perché sono dei curiosi ad oltranza e anche perché non hanno un cazzo da fare. Sono sempre lì, come sentinelle della morale altrui. Se socchiudi la porta te li ritrovi dentro le tue idee e dentro le tue stesse parole. Li conosciamo. Abbiamo seguito la loro evoluzione e quindi siamo consapevoli che nel tempo hanno sparato un sacco di cazzate. Sappiamo anche che se ne stanno rintanati dietro i loro monitor a curiosare tra le pagine dei loro amici virtuali. Quello che rompe i coglioni è che al momento opportuno insorgono, esplodono, obiettano, hanno un consiglio lavico pronto e impacchettato da offrire agli altri. Loro sono i buoni. Gli altri sono tutti degli zombie che scrivono cavolate. Questi pseudo santi eruttano sentenze e parole mielose tra lapilli e consigli stomachevoli copiati da chissà dove e incollati nelle bacheche dei peccatori di turno. Il tutto  per amore del prossimo. Solo per amore. Questi vulcani telecomandati cercano le crepe sui muri del pianto per introdurvi i loro semi di sapienza raccolti nei giardini del farweb, semi d’indottrinamento dozzinale che fanno crescere nei loro orticelli, come fossero cavoli o ravanelli, per poi svenderli nei mercati dell’imbecillità e della presunzione. E se per caso, i peccatori a cui sono dirette le loro prefiche non gradiscono tali doni, allora si offendono, ti cancellano dalle loro amicizie e se ne vanno nel paese del vaffa… di loro spontaneità. Negli animi dei moltissimi difensori della morale altrui aleggia spavaldo il desiderio di migliorare l’uomo partendo dalla sua coscienza e dalla sua dottrina, “come avveniva nei discorsi di quei quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo”, di paoliana memoria. Questo è il bello di Facebook e di tutti quei network dove viene concessa libertà di parola, libertà di stampa, libertà di rompere i coglioni al prossimo e sentirsi appagati.

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PERCHÉ ABBIAMO IL CERVELLO?

     Se Qualcuno che abita al piano di sopra, tra galassie e buchi neri, ha fatto in modo che noi uomini fossimo anche degli esseri pensanti, un valido motivo lo avrà pur avuto, altrimenti ci avrebbe fatto tutti acefali e la cosa sarebbe stata assolutamente normale, indifferente persino alle nostre madri. Io non credo che noi siamo nati da un progetto andato a male o, peggio ancora,  da megalomania para-divina, né credo che siamo stati assemblati e generati dal caos mentre la terra era immersa nel brodo caliente che l’ha forgiata e formata. Se così fosse, mi dovrei domandare da dove sono spuntati  tutti i vari componenti che ci compongono e come e da chi sono stati assemblati. E saremmo punto e da capo. In questo caso, credimi, non intendo indagare il mistero della creazione e dell’esistenza. Troppo complicato e troppo affascinante per farlo senza troppa convinzione e preparazione. Ora, in queste quattro righe desidero solo affermare, presuntuosamente, che se noi uomini siamo stati dotati di un cervello non è per tenercelo a riposo, “pulito” e “sgombro”, sotto naftalina. Lo abbiamo avuto in dono per utilizzarlo al meglio delle sue potenzialità affinché questo misconosciuto marchingegno ci aiuti a comprendere il mistero della vita e, attraverso la conoscenza dei suoi straordinari ingranaggi e l’apprendimento dei suoi meravigliosi risvolti con cui si offre a noi quotidianamente, ci aiuti a renderla più vivibile. Tutto qui! Se poi qualcuno lo adopera per costruire gabbie per topi, visto che i sensibili e intelligenti topi non si auto costruiscono le loro prigioni, quello è un altro modo di usare il  cervello, non per edificare l’avvenire, ma per distruggere il presente e il futuro dell’uomo e della terra.

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